Europa: elezioni politiche, astensionismo e crisi economica

Elezioni Europee

Elezioni Europee

Il 25 maggio scorso è stato eletto il nuovo parlamento europeo. I cittadini dei 28 Paesi che compongono l’UE sono stati chiamati ad esercitare il loro diritto ad esprimere la preferenza verso un partito, un candidato, insomma l’idea di come dovrebbe essere composto il parlamento di questa “creatura” politica che, a giudicare dal forte astensionismo che si è registrato, pare sia ancora lontano dalle menti e dagli animi degli oltre 49 milioni di cittadini con pieno diritto al voto.

Infatti, il 56,01% degli aventi diritto non ha votato, non ha espresso alcuna adesione ad alcun partito, o movimento di nessuna corrente. I Paesi più virtuosi dove l’astensionismo è stato tra i più bassi, sono stati Malta con il 25% di non votanti, il Belgio e il Lussemburgo, entrambi con la percentuale abbassata al solo 10%.

Dunque, ancora una volta il partito dei vincitori è, paradossalmente, quello dei cittadini che in Europa o non ci vogliono stare, oppure che non credono di poter essere rappresentati da alcuno dei tanti movimenti e partiti che costellano l’area del parlamento europeo.

Già lo scorso anno, a maggio e luglio, in occasioni delle elezioni amministrative italiane, con particolare riferimento a quelle tenutesi in Sicilia, ho avuto modo di esprimere il mio punto di vista circa il fenomeno (preoccupante) riguardante l’astensionismo al voto ed il suo significato politico.

Le cose, a quanto pare, a distanza di un anno, sebbene in un contesto assai più ampio e variegato (i 28 paesi europei, le rispettive culture e politiche nazionali, rispetto alla sola situazione italiana), danno un’idea abbastanza chiara oramai del sentimento di difficoltà, quando non di rifiuto, degli europei nel riconoscersi parte di un tutt’uno, quando si parla di spirito europeo, identificazione in una sola cultura, politica transnazionale, realizzazione di obiettivi comunitari, e via via elencando si potrebbero scrivere fiumi di parole e di concetti legati all’idea di un’Europa che non c’è, non ancora almeno.

Basti pensare che non esiste, ancora oggi, un esercito europeo, una polizia federale o una giustizia europea capace di operare in tutti i 28 paesi che compongono l’UE. Le stesse elezioni, cui abbiamo testé partecipato, si sono svolte in maniera, a dir poco, singolare: ciascun paese aveva (ed ha) regolamenti diversi, a quale età si può votare e in quale giorno. Infatti, in alcuni stati membri si è cominciati ad affluire alle urne dal venerdì, in altri il sabato o la domenica. La soglia di sbarramento, poi, per alcuni paesi è del 4%, per altri del 2% e così via. Insomma, una gran confusione e diversi sistemi con diverse regole che, certamente, non aiutano a comprendere e ad accettare l’organismo del governo europeo con le sue politiche, troppo spesso distanti nei fatti dalle popolazioni locali.

I movimenti che hanno prevalso nella percezione della gente comune sono quelli che spingono verso la parcellizzazione della comunità europea, spesso con una sterzata in direzione delle politiche xenofobe, e quando va bene nella direzione di una “Non adesione all’Euro” come moneta unica, prevedendo in alcuni casi specifici, una “divisa” a due velocità, questo allo scopo di aiutare le economie in difficoltà attraverso una “svalutazione mirata”  per favorire gli scambi commerciali. Concetto sul quale molti economisti ed agenzie di rating si sono espresse in maniera negativa.

Ancora, il dato che dovrebbe allarmare è la nascita e la diffusione dei movimenti politici di estrema destra che dalla Grecia all’Inghilterra, passando per la Francia, hanno raccolto milioni di consensi, da quei cittadini che non  solo non vogliono stranieri dentro i loro confini, ma puntano verso una politica che allontani sempre più i cittadini dall’idea di un’Europa sempre più unita, sotto ogni aspetto.

Anche in Italia stiamo assistendo alla diffusione degli “euroscettici”, sia per quanto riguarda la politica comunitaria sia per quanto attiene al mantenimento dell’Euro, come moneta di riferimento.

Le ragioni che spingono questi ultimi sono chiare e attendono, ovviamente, una risposta politica dall’attuale governo Renzi, posto che i numeri relativi all’economia nazionale, dal 2008 ad oggi, purtroppo non sono cambiati, anzi!

Il dato sconfortante, che più dovrebbe far riflettere l’attuale Presidente del consiglio, è quello riguardante la disoccupazione che sul territorio nazionale, ancora una volta, viaggia su di un doppio binario: uno fa riferimento al nord e l’altro al sud del Paese. Le cifre sono sconfortanti, disegnano un Paese in profonda crisi economica che deve rapportarsi ad una macchina statale che non funziona, non aiuta e non sa dare degli indirizzi. Come se non bastasse, la pressione fiscale, a fronte di servizi che non funzionano in maniera adeguata o da paese civile, ha raggiunto livelli assolutamente inaccettabili, che ovviamente spingono gli imprenditori (grandi e piccoli) ad evadere il fisco o a trasferire capitali e aziende fuori dai confini nazionali.

A fronte di tutto questo, perché io cittadino di uno dei 28 Paesi che compongono l’Unione Europea dovrei ancora credere in questo disegno unitario?

Le risposte dovranno arrivare dalle politiche che, a cominciare dalla presidenza del semestre italiano del Consiglio Europeo (luglio-dicembre 2014), finalmente porranno maggiore attenzione alle economie e alle finanze dei Paesi più in difficoltà, in specie quelli dell’area mediterranea (Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) riconsiderando il “Patto di stabilità” della politica di bilancio europea, rendendo quest’ultimo meno rigido rispetto alla regola del rapporto del 3% tra il Pil nazionale ed il debito pubblico.

Dunque, la scelta annunciata subito dopo le ultime elezioni del parlamento europeo, dovrebbe volgere verso politiche “sostenibili” e non solo di mero equilibrio tra dare e avere. Qui, ovviamente, non si parla di una “partita doppia”, com’è d’uso nelle aziende, ma di esercitare una nuova politica che vada nel senso del riconoscimento, innanzitutto, delle difficoltà finanziarie di molti dei Paesi che compongono l’UE e di conseguenza di una maggiore attenzione verso le famiglie sempre più in difficoltà economica.

Molti economisti, europei e non, hanno indicato le strade per il superamento della crisi economica che ha investito l’area americana e, per ragioni strutturali legati a scelte finanziarie operate dalle grandi banche internazionali, quella europea e, seppure in percentuale minore, l’area asiatica e dei cosiddetti “Paesi emergenti” (che si distinguono per il loro Pil a due cifre!). I governi devono tornare ad essere protagonisti dei mercati, devono tornare ad essere imprenditori attraverso l’immissione sui mercati di denaro “fresco” e la creazione dei presupposti che favoriscano, in definitiva, la crescita del lavoro.

La storia recente dovrebbe aver insegnato a tutti noi che la ricchezza basata sugli scambi finanziari, quella che prevede i soli “passaggi” o “transiti” di denaro e titoli, attraverso le speculazioni finanziarie, non è vera ricchezza. Alla stessa velocità con cui si è realizzata si può cancellare. Gli esempi li abbiamo e li conosciamo, soprattutto con riferimento alla “bolla” finanziaria americana, che ha dato il via alla crisi dei mercati finanziari dal 2008 in avanti.

Il Consiglio Europeo, attraverso i suoi organi istituzionali (Parlamento e Commissione Europea) ha l’obbligo, non solo morale, di indirizzare le politiche dei prossimi cinque anni, verso lo sviluppo economico, il rilancio delle imprese (specialmente quelle medie e piccole) la riorganizzazione, ove fosse necessario, delle amministrazioni dei singoli governi e dei rispettivi apparati burocratici, e ancora il rilancio della ricerca.

In Italia, lo sappiamo bene, non si fa ricerca. Comunque non abbastanza. Prova ne è la grande “fuga di cervelli” all’estero, quando non trovano fondi statali o aziende disposte a condividere un progetto, un’idea o anche solo un sogno!

E questo è il vero dramma della nostra società: non siamo più capaci di sognare e di sperare.

Così, non possiamo accorgerci della bellezza intrinseca nell’idea di un’Europa unita e senza barriere politiche e doganali. Di un “insieme” politico, oggi composto da ben 28 Paesi, che può garantire pace e stabilità ai suoi membri. Tutto questo, a condizione che ci si creda veramente, unendo gli sforzi di tutti, secondo i principi che fondano, da sempre, tutte le Nazioni libere e democratiche: democrazia ed equità. Equità nella ridistribuzione della ricchezza, attraverso la garanzia di un lavoro garantito a tutti e dignitoso. Equità nel sopportare il “peso” della pressione fiscale che deve assicurare ad ogni cittadino assistenza e servizi. Queste sono le condizioni alle quali non si può e non si deve rinunciare pensando ad un governo nazionale o, ancor meglio, a quello dell’Europa Unita.

Solo così, ciascuno di noi ne vorrà far parte, tornando a credere in un sogno: di Democrazia, Giustizia e Libertà.

Informazioni su Faber

Nato e cresciuto a Milano. Dopo un breve periodo trascorso in Sicilia nella provincia siracusana ha conseguito il diploma di ragioniere e perito commercialista, per poi lavorare per il Ministero della Difesa. Da un anno si è trasferito a Palermo dove si occupa di assistenza per il personale civile e militare, dipendente dal Ministero della Difesa. Per alcuni anni a Torino e in Piemonte, sempre per conto del Ministero, si è occupato del settore pubbliche relazioni. Nell'anno accademico 2009/2010 ha conseguito una laurea di primo livello in Scienze dell'Amministrazione presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Siena. Ha sempre nutrito un forte interesse per la storia europea in particolare, soprattutto sotto il profilo politico-economico e sociale.
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