In continuo aumento la richiesta di diagnosi per la dislessia alle equipe psicopedagogiche. Non si sta esagerando con lo scaricabarile?
Riflessioni di una psicologa
Di Paola Federici
Da diverso tempo mi giungono sempre più numerose le richieste di genitori in ansia, in preda alla preoccupazione di avere un figlio dislessico. Sembra diventato il male del secolo. Possibile un così elevato numero di dislessici? Sento puzzo di bruciato.
Certamente fino a qualche decennio or sono i bambini con problemi di dislessia non venivano riconosciuti. Il problema non era preso nemmeno in considerazione. In sostanza non se ne parlava, quindi non esisteva. I poverini erano definiti asini, svogliati, pigri, poco interessati, con poca memoria e alla fine lasciati perdere al loro destino, con ovvie conseguenze negative sia scolastiche che emotive.
Un trattamento da “somaro” porta sempre strascichi negativi in un bambino in crescita, paragonato di continuo ai compagni “più bravi”, più volonterosi, più in tutto. Talvolta ai problemi di lettura si sommava la discalculia, la difficoltà a fare i calcoli, le banali quattro operazioni. Un tempo alcuni ragazzini non finivano nemmeno la quinta elementare, altri mollavano dopo la prima media o dopo due ripetute bocciature. Ma senza alcuna diagnosi in merito: incapaci, svogliati, distratti, non interessati. La scuola espelleva in fretta i ragazzini, che andavano a lavorare come garzoni a 11 anni o frequentavano un corso professionale pratico, di due o tre anni al massimo, che insegnava loro un mestiere, dove di solito eccellevano e riconquistavano la fiducia in se stessi. Calzolai, fabbri, falegnami, sarti, quanti artigiani saranno stati definiti non adatti a proseguire le scuole, mentre si rivelavano degli artisti non riconosciuti, spesso dalle mani d’oro e dalla mente pratica.
Ma rimaneva per sempre nell’angolo più profondo della loro personalità quell’ansia improvvisa di trovarsi, nel corso della vita, di fronte a un testo e non riuscire a leggerlo in pubblico, o dover scrivere sotto dettatura e non farcela. Una signora anni fa si era rivolta a me per superare l’ansia di apporre anche solo la sua firma, di fronte ad altre persone. Andava nel panico e le si bloccava la mano!
Perchè oggi cosi tante richieste di valutazioni per diagnosi di dislessia?
Sappiamo tutti che negare un problema non vuol dire che non esista. Anche se è stato fatto così per decenni. I miei ricordi rivangano ancora le allora “classi differenziali”: quando passavano nel corridoio della scuola ci si dava di gomito e sottovoce qualcuno sussurrava, passano i bambini scemi. Che ovviamente scemi non erano affatto, ma solo altamente emotivi, impauriti, tra loro sicuramente anche i dislessici e i disgrafici, quelli con “scarsa memoria”, tutti giudicati anormali e spesso abbandonati a se stessi , quasi tutti provenienti da famiglie disagiate, per le quali la scuola era solo un periodo in cui i figli non potevano portare a casa il proprio contributo economico. Di dislessia non si parlava ancora. Era la fine degli anni 50, inizio anni 60, quando molto cambiò con la nuova scuola dell’obbligo.
Ma oggi sembra stia accadendo l’esatto opposto, nel senso che ho dubbi che si stia davvero esagerando. Sono davvero molte le telefonate che ricevo – lavoro come privata – so che le strutture pubbliche preposte per legge ad effettuare i tests per la valutazione di eventuale dislessia sono strapiene, con liste d’attesa di almeno due anni, a volte anche di più . Tempo perso prezioso: se un bambino è dislessico a 6 anni e viene subito diagnosticato, viene aiutato nell’immediato, ha maggiori possibilità di recupero rispetto a un bambino di 8, 9 anni, mentre la situazione peggiora se la diagnosi viene effettuata in prima media.
Accade cosi che sempre più numerosi i genitori, invitati dagli insegnanti a richiedere una valutazione con tests appositi, cadano nel panico, quando si trovano di fronte un muro di due o tre anni di attesa nei Centri di servizio pubblici in molte città italiane. Il bello è che la legge impone l’obbligo che tali valutazioni avvengano in strutture pubbliche, in caso si segnalazioni dei docenti, ma i bimbi da valutare superano i tempi accettabili, a causa del personale esperto assunto in modo insufficiente. E così, la maggior parte dei genitori si rivolge a psicologi privati.
Un’altra assurdità, capitata anche alla sottoscritta, è che dopo aver fatto tutti i tests diagnostici – in un caso di ADHD, disturbo da deficit di attenzione e iperattività – i risultati, pur adeguati, vennero rifiutati dalla scuola e da chi doveva richiedere i supporti previsti dalla legge, perchè la diagnosi doveva provenire da una struttura pubblica. Occorre, tra l’altro, che sia una equipe a effettuare l’indagine, composta almeno da uno psicologo, un neuropsichiatra e un logopedista.
Quali le cause, è sempre e solo dislessia? O carenza di metodologia di studio, ambiti culturali diversi, ansia eccessiva di genitori preoccupati?
Si può comprendere la preoccupazione dei genitori di fronte alla richiesta degli insegnanti di una diagnosi, nel dubbio che il proprio figlio sia dislessico, disgrafico, quando si trovano a dover anche aspettare anni per avere una conferma o una rassicurazione che non c’è nulla di tutto ciò. Ma intanto il bambino come fa? Come procede? Dovrebbe seguire i programmi ma i metodi per riuscirci non glieli insegna nessuno. Si dovrà arrangiare, perdendo quasi sempre terreno, spesso i genitori, se possono, lo mandano a lezione privata, già dalle scuole elementari o dalla prima media. Uno scollamento tra richieste scolastiche e mancate risposte del pubblico che rischia di ricreare gli asini di antica memoria e danni nella considerazione di se stessi, spesso non più superabili. Molte famiglie non possono proprio fare nulla, nè pagarsi le indagini diagnostiche presso equipe private o convenzionate, se riescono a trovarle: per molti bambini un ritardo di due o tre anni significa perdere anche punti nel livello di Q.I., senza gli stimoli adeguati perdono il treno e non fanno più nulla.
Dubbi e riflessioni
- Diamo pure per certo che in passato i dislessici fossero non riconosciuti e bistrattati. Ma oggi c’è da chiedersi perchè mai le richieste di valutazione per dislessia provenienti dalle scuole siano così numerose. Molte richieste potrebbero essere evitate, per lasciare cosi maggiore spazio a coloro che ne hanno veramente necessità.
- Perchè il tasso dei dislessici e disgrafici pare cosi aumentato negli anni? Ipotizzando che tutte le richieste non trovino conferma, cosa che accade, ma in misura leggera pare che quasi tutti questi alunni abbiano una qualche forma , anche minima, di dislessia, disgrafia, o discalculia. Possibile?
- Ma non è che gli insegnanti, alle prime difficoltà, trovano più rapido – magari anche per mettersi al riparo da possibili errori di valutazione – inviare gli alunni ai Centri per la diagnosi della dislessia, piuttosto che tentare di approfondirne i motivi, per esempio la capacità organizzativa del bambino, la sua autonomia generale, l’età (talvolta sono sufficienti pochi mesi in meno della media all’ingresso nella scuola dell’obbligo a fare la differenza), il grado di responsabilità dei bambini, il fatto che siano seguiti nei compiti da un genitore o da qualche adulto, soprattutto nelle prime classi, piuttosto che abbandonati a se stessi.
- E’ certo che risulta pià facile affidarsi a un “esperto” in materia, mentre a volte basterebbe in taluni casi, allenare l’alunno a una graduale autonomia e responsabilità.
- Non è che a scuola si teme di “rallentare” lo svolgimento dei programmi e invece di avere presente gli alunni che ci si trova davanti, si guarda rigidamente il cosiddetto “programma”, che va terminato ad ogni costo?
- Non è che nessuno ha mai insegnato un metodo di studio adatto ai bambini delle scuole elementari e a quelli delle medie, che non riescono nemmeno a segnare i compiti da svolgere nella pagina giusta del diario o non hanno mai preso l’abitudine di usarlo?
- Sappiamo che ognuno di noi ha un metodo di studio adatto alla propria modalità di apprendimento. Non mi risulta che a scuola si parta dall’insegnare i metodi. Alcuni alunni se li trovano da soli, o hanno un’ottima memoria uditiva, stanno attenti in classe e non hanno problemi. Altri tendono a distrarsi, possono arrivare da ambienti meno acculturati e certi termini suonano oscuri, difficili, poco usuali nella loro vita quotidiana. Basterebbe questo per incontrare difficoltà nell’apprendimento, nella comprensione di ciò che si legge. Come dire “leggo ma non capisco”.
Un esempio di non-dislessia
La bambina albanese che non “aveva memoria”, a detta degli insegnanti.
I problemi scolastici dei bambini stranieri in Italia
La maestra dice che la bambina non ha memoria – mi spiega preoccupata al telefono la mamma di K. undicenne che frequenta la prima media “forse è dislessica, dice la prof. di lettere, perché non capisce e non ricorda quello che legge”.
Come sarebbe “non ha memoria”? – trovo strana questa affermazione. Mi informo, cerco di capire se la ragazzina sia abituata a studiare a memoria senza capire o se abbia davvero difficoltà di lettura e di comprensione – come dice la mamma inviata dall’insegnante di lettere per probabile dislessia.
La mamma arriva con la bambina, mi porge libri e quaderni, che sono in linea di massima discretamente ordinati, però con alcuni brani di frasi perse per strada…..
- La bambina è lenta – spiega la mamma – la maestra cancella la lavagna mentre lei sta ancora copiando.
Ascolto la mamma di K, che si esprime parlando in fretta, ma dice un sacco di strafalcioni e ha una pronuncia marcatamente straniera. Mi dice che sono albanesi, in Italia almeno da circa 5 anni, quindi da quando K aveva 6 anni.
– A casa che lingua parlate? – chiedo
– Albanese – risponde sicura la mamma
Quindi – spiego – la bambina conosce due lingue, l’albanese che parlate tra voi e anche coi parenti, se ho capito bene, e l’italiano. Quando parla l’italiano?
- A scuola e con le amiche di scuola – risponde la madre.
- Un po’ poco – spiego . La bambina ha un accento italiano, ma quando legge brani di mitologia greca non capisce molti vocaboli oggi in disuso. Ma non capisce nemmeno ciò che legge, è fuori dal suo mondo.
Faccio quindi leggere alla ragazzina “senza memoria” ipotizzata dislessica, una pagina di storia su cavalieri medioevali tratta dal suo libro di scuola.
Le chiedo, dopo alcune righe, di fare una sintesi di quel che ha letto. Legge abbastanza bene, ma ho la sensazione che sia una lettura vuota, di cui non coglie il senso. K. Cerca di ricordare a memoria le frasi per intero, senza capire assolutamente nulla del significato non solo dei contenuti, ma anche di molte parole.
Comincio a chiederle di spiegare i significati di alcune parole che ha letto. Si tratta di latifondisti e latifondi, per esempio , un testo che dovrà riassumere per il giorno successivo. Il problema di fondo è che K. non sa cosa significhino i termini “latifondo” e “latifondista” e cosi via molte altre parole per lei sono oscure. Come può riassumere un testo di cui non conosce il significato?
Il metodo di studio non glielo ha spiegato nessuno. La scuola no di certo, la mamma va a fare le pulizie e non sarebbe in grado. Avrebbe potuto farlo la maestra presso cui la bimba va tre volte la settimana per essere seguita nei compiti, ma questa signora ha gruppi di 8-10 ragazzini di classi ed età di diverse, come potrebbe aiutarla a livello individuale? Almeno da lei è partita la richiesta alla madre, di portarla da uno psicologo per un’analisi delle memoria, perchè la bambina ha problemi in tal senso. Ma la memoria non ha nulla a che fare col problema della ragazzina. Non si tratta di memoria e nemmeno di dislessia!
Inutile dire che, una volta spiegato alla ragazzina cos’è un latifondo e cosa sono i latifondisti, lei si illumina e felice mi riferisce con le sue parole la sintesi delle cinque righe che le avevo chiesto. Dopo una mezz’ora, si ricordava perfettamente il succo di ciò che aveva letto ed era ben consapevole del significato.
Questa non è dislessia, non è nemmeno un problema di memoria, è un problema di metodo, di scarsa conoscenza delle basi culturali minime necessarie e la bambina potrebbe essere recuperata. Lo spiego alla madre che si illumina e dò consigli pratici per lei e per i familiari, oltre che per l’insegnante che segue la ragazzina.
E’ ovvio che se in una famiglia media italiana i vocaboli utilizzati in casa per comunicare nelle relazioni del quotidiano, il telegiornale ascoltato la sera alla tv e la normale vita sociale della famiglia, sono in genere sufficienti a gettare le basi di quelle conoscenze lessicali per una resa scolastica media, per un bambino di lingua madre straniera lo scoglio è soprattutto linguistico. Soprattutto se l’alunno appartiene a una famiglia immigrata di prima generazione di un livello culturale elementare , che parla in casa quasi esclusivamente la lingua del Paese d’origine, se ha contatti solo al mattino con i compagni di scuola e al pomeriggio parla la propria lingua in casa con mamma e fratelli o ha poco socializzato con gli amichetti italiani, ciò basta per rendere insormontabili le difficoltà di apprendimento. Ma non occorrono tests per la dislessia, per accorgersi che si tratta solo di problemi linguistici e di comprensione della lingua scritta! In questo caso gli insegnanti della prima media hanno accennato a problemi di memoria, o a problemi legati alla dislessia. Nessuno si è preoccupato della cosa più banale: K. Sapeva chi erano i latifondisti? E i latifondi? Non aveva mai studiato nemmeno latino, che avrebbe potuto aiutarla nell’ipotizzare il significato di “latus”. Cosi la poverina aveva imparato a studiare a memoria, come si studiano le poesie, senza capire un’acca di quel che ripeteva.
Come non accorgersi di un errore cosi madornale?
Sono soltanto alcuni esempi di quante siano le variabili implicate nelle diagnosi legate ai problemi cognitivi. Occorrerebbe avere le risorse e l’organizzazione scolastica adeguate per identificare problemi che nulla hanno a che fare con l’area cognitiva in bambini con problemi d’altro tipo, per esempio quelli culturali o familiari.